Jacques GAILLOT. Testimonianza di Jean-François BERJONNEAU

Jacques GAILLOT a volte diceva: “Se nella diocesi fosse rimasto un solo sacerdote, lo nominerei cappellano del carcere. Era una priorità per lui.
È lì che ha vissuto questa preferenza evangelica per la pecora smarrita.
È lì che ha messo in pratica questa audacia di Cristo che consiste nell’uscire dalle 99 pecore dell’ovile per andare alla ricerca di colei che si è smarrita su sentieri pericolosi.

E ha io accettato che assumessi il ministero di vicario generale pur essendo cappellano del carcere per non perdere il rapporto con gli esclusi.
Allo stesso modo, scelse poi Roland DOLLÉ come vicario generale in relazione al suo ministero di cappellano dell’ospedale psichiatrico.
Per lui il carcere era il luogo dove la Chiesa poteva essere a diretto contatto con il grido degli esclusi, degli emarginati, dei “maltrattati dall’esistenza” come diceva l’Abbé Pierre.
E si è lasciato toccare da queste grida.

E non ha mai smesso di mostrare loro la loro dignità nonostante il loro pesante passato
Abbiamo vissuto una bella collaborazione in questo ministero che consiste nell’essere testimoni di speranza per coloro che ne sono tanto privi e che a volte pensano di non avere più futuro.

Certo, è venuto a celebrare la messa nelle principali festività con questa parrocchia intramurale.
E ci siamo incontrati la mattina prima di partire per la Maison d’Arrêt nel giardino del vescovado per raccogliere i fiori in primavera per decorare la stanza che fungeva da nostra cappella.
Ma gli piaceva anche partecipare alle riunioni di cappellania, ascoltare le sofferenze, le grida di rivolta, le domande abissali poste da queste persone in attesa di giudizio.

E ricordo che in certi momenti usciva dall’aula della cappellania spiegando che non era lì solo per i ragazzi che frequentavano la cappellania ma anche per gli altri.
E andava con la chiave della cappellania a incontrare i carcerati qualunque fosse la loro religione, la loro provenienza o il reato commesso nelle loro celle.
Vi risiedeva in brevi soggiorni dove poteva esercitare la sua straordinaria capacità di mettersi alla portata delle persone, di capirle e di mostrare loro questa amicizia che dava loro fiducia e che gli permetteva di ascoltare tante confidenze.
E non era solo con lui.

Sapeva anche bagnarsi e impegnarsi per contribuire al reinserimento dei ragazzi che uscivano dal carcere.
Arrivò al punto di aprire alcune stanze al secondo piano del vescovado per accogliere uomini che uscivano di prigione come parte dell’associazione Pause café.
Non fu facile perché un giorno fu chiamato da un gioielliere di Évreux al quale uno dei suoi ospiti aveva cercato di rivendere la sua croce pettorale che aveva rubato al vescovado.
Ha portato avanti questa preoccupazione anche in collaborazione con associazioni come Pause café, rifugio, habitat e umanesimo, il soccorso cattolico per contribuire a questo lungo cammino dell’ostacolo rappresentato dal reinserimento.

Infine, non ha cessato di interpellare tutte le comunità cristiane riunite nella sua diocesi sulla loro capacità di aprirsi a queste angosce degli esclusi e di attuare una concreta solidarietà.
Egli ha detto :
“Alla nostra Chiesa manca la povertà del rischio.
Quali sono le nostre audacie adesso?
La Chiesa è serva quando, di fatto, sta dalla parte degli immigrati, dei disoccupati, dei carcerati, degli esclusi, delle minoranze…
La credibilità obbliga ad essere vero in ogni situazione.
Quando fai le cose, non puoi imbrogliare.
Se la Chiesa non serve, è inutile».

Grazie, Jacques, per aver servito la nostra Chiesa diocesana ponendo i poveri al centro della comunione fraterna.
Con voi abbiamo compreso che una Chiesa può essere fedele alla Buona Novella di Cristo solo essendo solidale con tutti coloro che il mondo trascura.

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